Il Segretario Generale ha, nella sua relazione, approvata all'unanimità dal Congresso, illustrato il ruolo del lavoro alla luce degli eventi storici occorsi quali la pandemia ed il conflitto che sta sconvolgendo l’Ucraina. Il tessuto produttivo nazionale è chiaramente scosso per non dire declinante ed il lavoro deve trovare all’interno di questo contesto un nuovo ruolo ed un nuovo significato, anche con riferimento all’Europa. Infortuni sul lavoro, precarizzazione, quarta rivoluzione industriale, globalizzazione sono questioni fondamentali. Il sindacato dovrà fare pesare le istanze sociali, ma ancora una volta ribadisce il Segretario Generale, occorre avere una prospettiva europea. I sindacati tradizionali e organizzati non sono in grado di ovviare a molti problemi del mondo del lavoro. La situazione politica non aiuta, in particolare per la perenne litigiosità dei partiti e lo stato di continua campagna elettorale in cui versa la politica nazionale. Il Governo Draghi aveva un mandato limitato, siamo in una fase di passaggio. Le forze sociali devono proporsi costruttivamente. Ma la continua dinamica politica non consente di risolvere i problemi perché non esistono forze stabili di riferimento. Sono state attuate misure valide quali il reddito di cittadinanza ma tale misura non ha risposto alle esigenze di lavoro e produttive. La situazione economica si sta aggravando con l’inflazione, il caro vita, la scarsità energetica. Come sindacato l’AGL, deve essere conflittuale ma anche capace di utilizzare a beneficio dei lavoratori le situazioni favorevoli dal punto di vista contrattuale. Non esistono in Italia politiche del lavoro ed industriali ed il mondo dell’imprenditoria è in crisi. Alcune questioni nazionali sono ancora irrisolte: la crisi del mezzogiorno, ad esempio. L’Italia deve operare una svolta in questioni essenziali: l’ambiente, le fonti dell’energia, l’investimento su formazione ed istruzione, sul lavoro femminile. Occorre maggiore impegno nel sindacato, ma l’organizzazione si è mossa bene in particolare attraverso il patronato ed il centro di assistenza fiscale. Stiamo lavorando bene rispetto alle forze ed alle dimensioni dell’organizzazione. A Milano e in diverse zone del Paese il sindacato inizia ad essere conosciuto. L’obiettivo però è diffondere capillarmente l’organizzazione su tutto il territorio nazionale. Importante è tenere presente che numerosi soggetti si sono rivolti all’organizzazione ed hanno trovato ascolto e competenza.
AGL SICUREZZA SUL LAVORO
domenica 26 giugno 2022
mercoledì 29 aprile 2020
Avv. Andrea Ferrario: COVID19 E RESPONSABILITA' DATORIALE
Avv. Andrea Ferrario
studio legale avvocato Andrea Ferrario
via Emilio Morosini n. 24 - 20135 Milano
tel 02 5454378 fax 025460549
Socio AGI - Avvocati Giuslavoristi Italiani
www.giuslavoristi.it
La norma base in tema di sicurezza sul lavoro è, come noto, la previsione di cui all'articolo 2087 c.c.. La disposizione, che riflette fondamentali principi costituzionali tra i quali, in particolare, il diritto alla salute (art. 32) e la necessità che l'iniziativa economica privata preservi la sicurezza, la libertà e la dignità della persona umana (art. 41), con speciale riguardo alla condizione del lavoro femminile e dei minori (art. 37), ha una portata semantica e precettiva molto ampia. Essa esprime in primo luogo un enunciato generale, che si articola poi in concreto nell'ambito della complessa disciplina speciale antinfortunistica, di cui rappresenta uno dei principali capisaldi il d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Testo Unico sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro). L'art. 2087 c.c. svolge però, al tempo stesso, una fondamentale funzione di chiusura del sistema di sicurezza e prevenzione, imponendo all'imprenditore il rispetto, non soltanto delle misure espressamente imposte dal sistema positivo, ma anche di quelle dettate dalle buone prassi, dall'esperienza e dalla tecnica nonché dalla comune prudenza (v., ex multis, Cass. civ., 4 giugno 2019, n. 15167). E, ancora più in generale, di quelle che si rendono “necessarie” in vista dei rischi potenziali o in atto nell'ambito dello specifico contesto lavorativo. Con l'esplosione dell'emergenza epidemiologica a questa disciplina si è quindi aggiunta una nutrita serie di provvedimenti legislativi di vario rango finalizzati al suo contrasto, contenenti anche svariate disposizioni prevenzionistiche, completate poi da accordi collettivi tra le Parti Sociali. Questi ultimi, pur dotati di diversa valenza e con l'efficacia propria del relativo strumento, hanno ulteriormente corredato il dispositivo con specifico riferimento alla sicurezza degli ambienti lavorativi. Profilo questo peraltro già ampiamente disciplinato anche da disposti normativi precedenti, benché in una prospettiva differente (si veda, ad esempio, in tema di dispositivi di protezione individuale, l'art. 18, comma1, lett. d del citato d.lgs. 81/2008). Di particolare rilievo, tra i provvedimenti dell'esecutivo, i successivi DPCM dell'8, 9, 11 e 22 marzo 2020, i D.L. n. 9 del 23 febbraio 2020, n. 18 del 17 febbraio 2020, n. 18 del 17 marzo 2020, oltre ad ulteriori misure contingenti o di dettaglio emanate sia dallo stesso governo centrale che dalle amministrazioni locali. In ambito confederale merita invece una specifica menzione il Protocollo del 14 marzo 2020 condiviso tra organizzazioni datoriali e sindacali e inteso a regolare in concreto le “misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”. Tale ultimo documento, la cui cogenza è stata correttamente revocata in dubbio (cfr. sul punto, P. Pascucci, “Sistema di prevenzioni aziendale, emergenza coronavirus ed effettività”, in Giustizia Civile.com, 17 marzo 2020) appare peraltro di grande rilievo pratico, rappresentando una sorta di ampio e assai dettagliato decalogo operativo che, unitamente ad altri strumenti analoghi “generalisti” elaborati nel corso dell'emergenza (tra i tanti, il “Decalogo”del 24 febbraio 2020, curato dall'ISS e dal Ministero della Salute) potrà forse utilmente affiancare le disposizioni legislative e regolamentari, come autorevole - ancorché non direttamente impegnativo - parametro esterno per l'individuazione di un livello minimo e standardizzato di sicurezza dell'ambiente di lavoro.
L'emergenza epidemiologica e i nuovi possibili scenari
Come si accennava dianzi, il dilagare dell'epidemia e la eventualità che essa si converta, dopo la fase di picco, in un rischio biologico generico con un trend ridimensionato ma anche più duraturo, pone talune prime questioni incidenti sul quadro complessivo dei doveri e della responsabilità dei datori di lavoro. Ma solleva anche taluni e in parte inediti interrogativi circa il possibile impatto concreto che la stessa emergenza avrà sul sistema di garanzie a tutela dei lavoratori. Entrambe le tematiche non possono all'evidenza, almeno in questa prima fase, che essere abbozzate in un'ottica necessariamente ipotetica o teorica, di prima lettura. Alla messa a punto di una più efficace e rigorosa valutazione di impatto del fenomeno manca infatti per ora l'imprescindibile complemento di quelle verifiche “sul campo” alle quali assisteremo nei mesi a venire e che, con ogni probabilità, daranno corpo al futuro dibattito scientifico e tecnico. Pur in vista di questa doverosa premessa metodologica, veniamo dunque al primo dei temi di riflessione in evidenza, afferente cioè alla posizione datoriale.
La prospettiva datoriale
Sotto questo primo profilo è ragionevole attendersi che l'emergenza epidemiologica e le sue verosimili sequele amplieranno in modo tutt'altro che trascurabile il sistema dei doveri di sicurezza incombenti sui datori di lavoro a tutela dei propri dipendenti. In questa prospettiva vanno intanto annoverati gli obblighi meramente formali (a tale riguardo sembra opportuno ricordare incidentalmente che non sembra ad oggi definitivamente risolta la questione in ordine alla sussistenza di un obbligo di aggiornamento del DVR ex art. 29, comma 3,d.lgs.n. 81/2008, cfr. sul tema A. Rossi, Al lavoro in sicurezza ai tempi del Covid-19, ne ilgiuslavorista.it, 23 marzo 2020) ai quali si aggiungono quelli operativi di comportamento attivo, adattamento e compliance con i vari obblighi prevenzionistici posti dalla disciplina emergenziale e non. Ma a prescindere dall'assolvimento di questi obblighi e in considerazione della natura alquanto subdola e pervasiva di questo particolare rischio biologico, bisogna soprattutto chiedersi in presenza di quali condizioni il dovere datoriale di prevenzione possa dirsi davvero - in questo mobile e del tutto inedito scenario - compiutamente assolto e ragionevolmente pretensibile e fino che punto e con quali implicazioni possa esser individuata una posizione di effettiva responsabilità datoriale. Come si accennava in premessa, anche talune recenti decisioni di legittimità hanno declinato l'obbligo di prevenzione e sicurezza datoriale in termini di particolare rigore ed ampiezza. Secondo la recente pronuncia della Suprema Corte, (Cass. civ., n. 30679/2019 cit.), l'assetto della colpa andrebbe collocato “all'interno di un quadro di fondo secondo cui chi organizza e pone in essere un'attività rischiosa, è tenuto a predisporre quanto necessario per evitare pregiudizi a terzi”. Da qui, tenuto anche conto che l'organizzazione lavorativa è espressione di un “interesse proprio del datore di lavoro”, la necessità che i presidi di sicurezza risalgano alla “responsabilità primaria datoriale” e che dunque l'obbligo datoriale di protezione rivesta in questo ambito una “portata pervasiva”.
Gli estensori del dictum dianzi menzionato e un'ancora più recente decisione di legittimità (Casss. civ., sez. lav., sent. 11 febbraio 2020, n. 3282) nel riconoscere all'art. 2087 c.c. una fondamentale funzione “dinamica” rispetto alla tutela della sicurezza, escludono nel contempo a chiare lettere che tutto ciò valga ad annunciare un superamento del dogma della responsabilità per colpa (e ancor meno, si potrebbe aggiungere, che ciò equivalga ad un'adesione alle note teoriche anglosassoni sul c.d. rischio di impresa). Ciò nondimeno, la eccezionalità e la non ancora compiuta conoscenza scientifica del nuovo rischio epidemiologico impongono forse una riflessione sulla effettiva sostenibilità, quanto meno rispetto alle specifiche sfide poste da una tale emergenza, di un modello di responsabilità datoriale colposa, ma “pervasiva” o “dinamica” che dir si voglia. E che rischia tuttavia, soprattutto in realtà organizzative medio-piccole, di produrre effetti assai gravosi e forse indesiderabili. Una delle principali criticità, di cui si darà conto anche nella diversa prospettiva del lavoratore, discende ad avviso di chi scrive dalla estrema difficoltà, già sul piano eziologico, di ricollegare con accettabile grado di certezza l'eventuale contrazione della patologia ad un'effettiva occasione di lavoro. Secondo i primi approdi della ricerca scientifica, l'agente patogeno Covid-19 è caratterizzato da un accentuato grado di infettività e dunque potrebbe risultare difficoltoso in concreto ricondurne la effettiva insorgenza ad una precisa fonte di contagio. La questione epidemiologica e eziopatogenetica verrà evidentemente dissodata in futuro negli ambiti clinici e medico-legali pertinenti. Resta però il fatto che - che come vedremo anche più avanti - la riconduzione della patologia ad uno specifico vettore infettivo e dunque ad una possibile “occasione di lavoro”, se forse più agevole in presenza di un rischio specifico, come ad esempio in relazione ad una professione sanitaria, potrebbe diventare assai più aleatoria in presenza di un assetto lavorativo connotato da rischio generico. Vale a dire di un rischio assimilabile a quello proprio di una qualsiasi altra interazione sociale in contesto familiare, ludico, associativo, relazionale etc. A questa prima considerazione si potrebbe aggiungere un ulteriore spunto problematico, in questo caso connesso più da vicino al tema della latitudine dei doveri prevenzionistici propri del datore di lavoro. La particolare insidiosità che sembra connotare questa affezione virale potrebbe non essere sufficientemente contrastata financo dalla più diligente adozione dello specifico pacchetto di misure “nominate” imposte dai protocolli dianzi citati, lasciando residuare possibili aree di rischio e di responsabilità oggi ancora non esaurientemente mappate. Si inserisce altresì in questa stessa prospettiva la oggettiva difficoltà di monitoraggio costante delle condotte degli operatori (sul punto cfr. Cass. civ., n. 3282/2020 cit.) e dunque il punto della valenza che potrebbe assumere in questo contesto (si pensi banalmente all'obbligo di distanziamento o di lavaggio delle mani) il principio di autoresponsabilità del lavoratore e dell'incidenza dell'istituto del concorso di colpa di cui all'art. 1227 c.c.. Ricordiamo infine, per completare il quadro anche attraverso il prisma processuale, il particolare assetto del riparto degli oneri probatori in tema di responsabilità ex art. 2087 c.c. Costituisce ormai ius receptum il principio secondo il quale, mentre spetta al lavoratore provare la nocività dell'ambiente di lavoro e la ascrivibilità a questa e ad un particolare fattore di rischio del danno alla salute, incombe invece sul datore l'onere di dimostrare di aver adempiuto il proprio obbligo di prevenzione avendo adottato “… non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore … ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio” (Cass. civ., 6 novembre 2019, n. 28516). Ed è proprio in relazione a tali “altre misure”, non determinate, che in un contesto così sfuggente potrebbe risultare particolarmente gravoso il carico probatorio dell'imprenditore. Questi messo a confronto con una tipologia di rischio inusuale, quanto impalpabile e generalizzata, che rischia di convertire il relativo onere processuale in una vera e propria probatio diabolica.
La posizione del lavoratore
Come in una sorta di immaginario gioco di specchi, le principali criticità dianzi riassunte potrebbero ritorcersi anche in danno del lavoratore, evidenziando in particolare il rischio – parallelo – di possibili vuoti di tutela. Occorre a tale riguardo premettere che, assai opportunamente, il Legislatore ha voluto chiarire (art. 42, comma 2, del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020, c.d. decreto “Cura Italia”), in riferimento sia al lavoro privato che pubblico, che l'infezione da Covid-19 di cui sia accertata la riconducibilità ad “occasione di lavoro” deve intendersi equiparata ad un normale infortunio sul lavoro e dunque essere sussumibile nella medesima disciplina. In questa prima prospettiva la copertura assicurativa antinfortunistica e la relativa garanzia indennitaria sembrerebbero assoggettate ad un regime tendenzialmente meno rigoroso rispetto a quello civilistico generale. Un recente documento di INAIL (nota 17 marzo 2020, n. 3675) con particolare riguardo, peraltro, agli operatori sanitari chiarisce come la tutela assicurativa si estenda anche alle ipotesi “… in cui l'identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica”, discendendone che “… ove l'episodio che ha determinato il contagio non sia percepito o non possa essere provato dal lavoratore, si può comunque presumere che lo stesso si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro indizio che in tal senso deponga”. Ma questo apparente favor, potrebbe però essere – appunto – solo tendenziale e correlato all'esposizione del rischio tipico, specifico proprio degli operatori sanitari. Ciò può dunque dirsi anche in relazione alle altre tipologie di addetti, esposti ad un rischio generalizzato e dunque di assai più complessa individuazione, in un'ottica anche solo probabilistica? Il quesito appare tanto più stringente se, dal campo del meccanismo assicurativo, ci spostiamo nell'ambito della colpa civile, il cui attuale statuto – con particolare riguardo alla sua proiezione processuale – abbiamo dianzi tratteggiato nei suoi momenti essenziali. Così come per il datore, potrebbe infatti risultare in concreto quanto mai arduo anche per il lavoratore assolvere alla parte di onere probatorio posta a proprio carico. L'universalità del relativo rischio biologico, potenzialmente disseminato in ogni ambito di interazione sociale, potrebbe rendere assai difficile ricollegare causalmente l'eventuale evento avverso ad una specifica fonte di rischio, così dimostrando la effettiva nocività dell'ambiente lavorativo. Come evidenziato nel documento INAIL testé citato l'identificazione della fonte di contagio potrebbe in sostanza risultare in un numero verosimilmente ampio di casi un'operazione alquanto “problematica” se non addirittura impossibile. Ciò che escluderebbe il lavoratore infortunato (e i propri superstiti) da quella più ampia tutela garantita, in particolare, dallo strumento risarcitorio civile. Vero è che, come ampiamente riconosciuto, un'inadeguata struttura di prevenzione del rischio o la carenza di idonei comportamenti attivi del datore di lavoro potrebbe legittimare il lavoratore ad avvalersi dello strumento di autotutela di cui all'art. 1460 c.c. e dunque rifiutare la propria prestazione lavorativa. E ciò soprattutto in realtà aziendali rispetto alle quali, per dimensioni, capacità economica ed organizzativa, non sia in concreto esigibile un livello di sicurezza di altissimo standard.
Ma è parimenti difficile negare che la straordinaria diffusività e le caratteristiche epidemiologiche di questa affezione renderanno alquanto complesso ogni procedimento di rigorosa ricostruzione causale. Mettendo - anche da questo lato della barricata - a dura prova l'efficienza del noto principio del “più probabile che non”, soprattutto in una prima fase di comprensione e mappatura scientifica del fenomeno e delle relative leggi di copertura.
Conclusioni
Come accennato dianzi le peculiari caratteristiche di questa emergenza epidemiologica, senza precedenti per diffusione e insidiosità, potranno verosimilmente mettere in tensione anche i termini ad oggi noti della responsabilità datoriale, allargando in modo importante e in larga parte inedito la già ampia sfera di operatività degli obblighi di sicurezza e prevenzione incombenti sull'imprenditore. Allo stesso tempo le presumibili difficoltà di ricostruzione causale del supposto evento infortunistico renderanno meno facilmente attingibile e talora forse impossibile per il lavoratore la prova di una effettiva nocività dell'ambiente di lavoro. Sarà dunque imprescindibile, almeno in una fase iniziale e di assestamento, individuare soluzioni di grande equilibrio e oculatezza. Non potendosi, da un lato, esigere dal datore di lavoro la predisposizione di un ambiente “a rischio zero”, né pretendersi, in questo momento storico attraversato da una pandemia di dimensioni universali “l'adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo” (Cass. civ., n. 3282/2020 cit.). Ma non potendosi neppure, per altro verso, indebolire i meccanismi acquisiti di tutela del lavoratore sacrificandoli agli interessi economici e della produzione. L'eventuale danno, dunque, non potrà - come si diceva - essere lasciato in alcun caso là dove è caduto.
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studio legale avvocato Andrea Ferrario
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La “portata pervasiva” dell'obbligo di protezione dei lavoratori alla prova del Covid-19 |
24 Aprile 2020 | Andrea FerrarioResponsabilità
del datore di lavoro
SOMMARIO |
Premessa | La disciplina di riferimento | L'emergenza epidemiologica e i nuovi possibili scenari | La prospettiva datoriale | La posizione del lavoratore | Conclusioni |
Premessa
La recente emergenza sanitaria legata alla diffusione pandemica del c.d. coronavirus sollecita, oltre al resto, un ampio spettro di spunti problematici e operativi riguardanti il tema della sicurezza dei lavoratori e dei connessi - stringenti - obblighi di prevenzione del rischio biologico generalizzato incombenti sul datore di lavoro. Più in particolare, i nodi critici e di discussione fin qui emersi con maggiore ricorrenza attengono alle specifiche strategie formali e pratiche da adottarsi a cura della figura datoriale. Ciò sia in relazione al rafforzamento delle condotte prevenzionistiche e al loro coordinamento con quelle già in atto, sia con riguardo all'adozione di nuovi presidi di sicurezza e metodologie di lavoro commisurati all'emergenza, con particolare riferimento allo strumento già da tempo espressamente disciplinato nel nostro ordinamento (artt. 18-23, l. 22 maggio 2017, n. 81) del c.d. smartworking (su tale ultimo punto, cfr., in particolare, L. Pazienza, “Il lavoro agile, c.d. smartworking, nel periodo di emergenza da coronavirus: forme di tutela del lavoratore dipendente”, in questa Rivista, 25 marzo 2020). L'insidiosità dell'urgenza epidemiologica e la eventualità che essa possa dilatarsi nel tempo, schiudono tuttavia anche ulteriori interrogativi e piani di analisi.
La sussistenza di un grave rischio biologico incombente in modo diffuso e pressoché indifferenziato su qualunque organizzazione di lavoro, renderà invero opportuno un attento scrutinio circa l'impatto di questa nuova tipologia di rischio sul vigente sistema della colpa datoriale e sul correlato sistema risarcitorio e di tutela del lavoratore. In questa ottica l'attuale latitudine, già molto ampia, degli obblighi datoriali di prevenzione e sicurezza e, per contro, la necessità che un eventuale danno a carico del lavoratore non venga comunque lasciato là dove è caduto, imporranno forse soluzioni nuove o comunque ispirate a grande prudenza e equilibrio. Con il duplice obiettivo di non amplificare in misura insostenibile i doveri datoriali di protezione, la cui portata è stata plasticamente definita “pervasiva” (Cass. civ., sez. Lav., 25 novembre 2019, n. 30679) e di assicurare nel contempo, e se del caso ampliare, l'effettività degli strumenti di tutela a beneficio del lavoratore.
La disciplina di riferimentoLa recente emergenza sanitaria legata alla diffusione pandemica del c.d. coronavirus sollecita, oltre al resto, un ampio spettro di spunti problematici e operativi riguardanti il tema della sicurezza dei lavoratori e dei connessi - stringenti - obblighi di prevenzione del rischio biologico generalizzato incombenti sul datore di lavoro. Più in particolare, i nodi critici e di discussione fin qui emersi con maggiore ricorrenza attengono alle specifiche strategie formali e pratiche da adottarsi a cura della figura datoriale. Ciò sia in relazione al rafforzamento delle condotte prevenzionistiche e al loro coordinamento con quelle già in atto, sia con riguardo all'adozione di nuovi presidi di sicurezza e metodologie di lavoro commisurati all'emergenza, con particolare riferimento allo strumento già da tempo espressamente disciplinato nel nostro ordinamento (artt. 18-23, l. 22 maggio 2017, n. 81) del c.d. smartworking (su tale ultimo punto, cfr., in particolare, L. Pazienza, “Il lavoro agile, c.d. smartworking, nel periodo di emergenza da coronavirus: forme di tutela del lavoratore dipendente”, in questa Rivista, 25 marzo 2020). L'insidiosità dell'urgenza epidemiologica e la eventualità che essa possa dilatarsi nel tempo, schiudono tuttavia anche ulteriori interrogativi e piani di analisi.
La sussistenza di un grave rischio biologico incombente in modo diffuso e pressoché indifferenziato su qualunque organizzazione di lavoro, renderà invero opportuno un attento scrutinio circa l'impatto di questa nuova tipologia di rischio sul vigente sistema della colpa datoriale e sul correlato sistema risarcitorio e di tutela del lavoratore. In questa ottica l'attuale latitudine, già molto ampia, degli obblighi datoriali di prevenzione e sicurezza e, per contro, la necessità che un eventuale danno a carico del lavoratore non venga comunque lasciato là dove è caduto, imporranno forse soluzioni nuove o comunque ispirate a grande prudenza e equilibrio. Con il duplice obiettivo di non amplificare in misura insostenibile i doveri datoriali di protezione, la cui portata è stata plasticamente definita “pervasiva” (Cass. civ., sez. Lav., 25 novembre 2019, n. 30679) e di assicurare nel contempo, e se del caso ampliare, l'effettività degli strumenti di tutela a beneficio del lavoratore.
La norma base in tema di sicurezza sul lavoro è, come noto, la previsione di cui all'articolo 2087 c.c.. La disposizione, che riflette fondamentali principi costituzionali tra i quali, in particolare, il diritto alla salute (art. 32) e la necessità che l'iniziativa economica privata preservi la sicurezza, la libertà e la dignità della persona umana (art. 41), con speciale riguardo alla condizione del lavoro femminile e dei minori (art. 37), ha una portata semantica e precettiva molto ampia. Essa esprime in primo luogo un enunciato generale, che si articola poi in concreto nell'ambito della complessa disciplina speciale antinfortunistica, di cui rappresenta uno dei principali capisaldi il d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Testo Unico sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro). L'art. 2087 c.c. svolge però, al tempo stesso, una fondamentale funzione di chiusura del sistema di sicurezza e prevenzione, imponendo all'imprenditore il rispetto, non soltanto delle misure espressamente imposte dal sistema positivo, ma anche di quelle dettate dalle buone prassi, dall'esperienza e dalla tecnica nonché dalla comune prudenza (v., ex multis, Cass. civ., 4 giugno 2019, n. 15167). E, ancora più in generale, di quelle che si rendono “necessarie” in vista dei rischi potenziali o in atto nell'ambito dello specifico contesto lavorativo. Con l'esplosione dell'emergenza epidemiologica a questa disciplina si è quindi aggiunta una nutrita serie di provvedimenti legislativi di vario rango finalizzati al suo contrasto, contenenti anche svariate disposizioni prevenzionistiche, completate poi da accordi collettivi tra le Parti Sociali. Questi ultimi, pur dotati di diversa valenza e con l'efficacia propria del relativo strumento, hanno ulteriormente corredato il dispositivo con specifico riferimento alla sicurezza degli ambienti lavorativi. Profilo questo peraltro già ampiamente disciplinato anche da disposti normativi precedenti, benché in una prospettiva differente (si veda, ad esempio, in tema di dispositivi di protezione individuale, l'art. 18, comma1, lett. d del citato d.lgs. 81/2008). Di particolare rilievo, tra i provvedimenti dell'esecutivo, i successivi DPCM dell'8, 9, 11 e 22 marzo 2020, i D.L. n. 9 del 23 febbraio 2020, n. 18 del 17 febbraio 2020, n. 18 del 17 marzo 2020, oltre ad ulteriori misure contingenti o di dettaglio emanate sia dallo stesso governo centrale che dalle amministrazioni locali. In ambito confederale merita invece una specifica menzione il Protocollo del 14 marzo 2020 condiviso tra organizzazioni datoriali e sindacali e inteso a regolare in concreto le “misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”. Tale ultimo documento, la cui cogenza è stata correttamente revocata in dubbio (cfr. sul punto, P. Pascucci, “Sistema di prevenzioni aziendale, emergenza coronavirus ed effettività”, in Giustizia Civile.com, 17 marzo 2020) appare peraltro di grande rilievo pratico, rappresentando una sorta di ampio e assai dettagliato decalogo operativo che, unitamente ad altri strumenti analoghi “generalisti” elaborati nel corso dell'emergenza (tra i tanti, il “Decalogo”del 24 febbraio 2020, curato dall'ISS e dal Ministero della Salute) potrà forse utilmente affiancare le disposizioni legislative e regolamentari, come autorevole - ancorché non direttamente impegnativo - parametro esterno per l'individuazione di un livello minimo e standardizzato di sicurezza dell'ambiente di lavoro.
L'emergenza epidemiologica e i nuovi possibili scenari
Come si accennava dianzi, il dilagare dell'epidemia e la eventualità che essa si converta, dopo la fase di picco, in un rischio biologico generico con un trend ridimensionato ma anche più duraturo, pone talune prime questioni incidenti sul quadro complessivo dei doveri e della responsabilità dei datori di lavoro. Ma solleva anche taluni e in parte inediti interrogativi circa il possibile impatto concreto che la stessa emergenza avrà sul sistema di garanzie a tutela dei lavoratori. Entrambe le tematiche non possono all'evidenza, almeno in questa prima fase, che essere abbozzate in un'ottica necessariamente ipotetica o teorica, di prima lettura. Alla messa a punto di una più efficace e rigorosa valutazione di impatto del fenomeno manca infatti per ora l'imprescindibile complemento di quelle verifiche “sul campo” alle quali assisteremo nei mesi a venire e che, con ogni probabilità, daranno corpo al futuro dibattito scientifico e tecnico. Pur in vista di questa doverosa premessa metodologica, veniamo dunque al primo dei temi di riflessione in evidenza, afferente cioè alla posizione datoriale.
La prospettiva datoriale
Sotto questo primo profilo è ragionevole attendersi che l'emergenza epidemiologica e le sue verosimili sequele amplieranno in modo tutt'altro che trascurabile il sistema dei doveri di sicurezza incombenti sui datori di lavoro a tutela dei propri dipendenti. In questa prospettiva vanno intanto annoverati gli obblighi meramente formali (a tale riguardo sembra opportuno ricordare incidentalmente che non sembra ad oggi definitivamente risolta la questione in ordine alla sussistenza di un obbligo di aggiornamento del DVR ex art. 29, comma 3,d.lgs.n. 81/2008, cfr. sul tema A. Rossi, Al lavoro in sicurezza ai tempi del Covid-19, ne ilgiuslavorista.it, 23 marzo 2020) ai quali si aggiungono quelli operativi di comportamento attivo, adattamento e compliance con i vari obblighi prevenzionistici posti dalla disciplina emergenziale e non. Ma a prescindere dall'assolvimento di questi obblighi e in considerazione della natura alquanto subdola e pervasiva di questo particolare rischio biologico, bisogna soprattutto chiedersi in presenza di quali condizioni il dovere datoriale di prevenzione possa dirsi davvero - in questo mobile e del tutto inedito scenario - compiutamente assolto e ragionevolmente pretensibile e fino che punto e con quali implicazioni possa esser individuata una posizione di effettiva responsabilità datoriale. Come si accennava in premessa, anche talune recenti decisioni di legittimità hanno declinato l'obbligo di prevenzione e sicurezza datoriale in termini di particolare rigore ed ampiezza. Secondo la recente pronuncia della Suprema Corte, (Cass. civ., n. 30679/2019 cit.), l'assetto della colpa andrebbe collocato “all'interno di un quadro di fondo secondo cui chi organizza e pone in essere un'attività rischiosa, è tenuto a predisporre quanto necessario per evitare pregiudizi a terzi”. Da qui, tenuto anche conto che l'organizzazione lavorativa è espressione di un “interesse proprio del datore di lavoro”, la necessità che i presidi di sicurezza risalgano alla “responsabilità primaria datoriale” e che dunque l'obbligo datoriale di protezione rivesta in questo ambito una “portata pervasiva”.
Gli estensori del dictum dianzi menzionato e un'ancora più recente decisione di legittimità (Casss. civ., sez. lav., sent. 11 febbraio 2020, n. 3282) nel riconoscere all'art. 2087 c.c. una fondamentale funzione “dinamica” rispetto alla tutela della sicurezza, escludono nel contempo a chiare lettere che tutto ciò valga ad annunciare un superamento del dogma della responsabilità per colpa (e ancor meno, si potrebbe aggiungere, che ciò equivalga ad un'adesione alle note teoriche anglosassoni sul c.d. rischio di impresa). Ciò nondimeno, la eccezionalità e la non ancora compiuta conoscenza scientifica del nuovo rischio epidemiologico impongono forse una riflessione sulla effettiva sostenibilità, quanto meno rispetto alle specifiche sfide poste da una tale emergenza, di un modello di responsabilità datoriale colposa, ma “pervasiva” o “dinamica” che dir si voglia. E che rischia tuttavia, soprattutto in realtà organizzative medio-piccole, di produrre effetti assai gravosi e forse indesiderabili. Una delle principali criticità, di cui si darà conto anche nella diversa prospettiva del lavoratore, discende ad avviso di chi scrive dalla estrema difficoltà, già sul piano eziologico, di ricollegare con accettabile grado di certezza l'eventuale contrazione della patologia ad un'effettiva occasione di lavoro. Secondo i primi approdi della ricerca scientifica, l'agente patogeno Covid-19 è caratterizzato da un accentuato grado di infettività e dunque potrebbe risultare difficoltoso in concreto ricondurne la effettiva insorgenza ad una precisa fonte di contagio. La questione epidemiologica e eziopatogenetica verrà evidentemente dissodata in futuro negli ambiti clinici e medico-legali pertinenti. Resta però il fatto che - che come vedremo anche più avanti - la riconduzione della patologia ad uno specifico vettore infettivo e dunque ad una possibile “occasione di lavoro”, se forse più agevole in presenza di un rischio specifico, come ad esempio in relazione ad una professione sanitaria, potrebbe diventare assai più aleatoria in presenza di un assetto lavorativo connotato da rischio generico. Vale a dire di un rischio assimilabile a quello proprio di una qualsiasi altra interazione sociale in contesto familiare, ludico, associativo, relazionale etc. A questa prima considerazione si potrebbe aggiungere un ulteriore spunto problematico, in questo caso connesso più da vicino al tema della latitudine dei doveri prevenzionistici propri del datore di lavoro. La particolare insidiosità che sembra connotare questa affezione virale potrebbe non essere sufficientemente contrastata financo dalla più diligente adozione dello specifico pacchetto di misure “nominate” imposte dai protocolli dianzi citati, lasciando residuare possibili aree di rischio e di responsabilità oggi ancora non esaurientemente mappate. Si inserisce altresì in questa stessa prospettiva la oggettiva difficoltà di monitoraggio costante delle condotte degli operatori (sul punto cfr. Cass. civ., n. 3282/2020 cit.) e dunque il punto della valenza che potrebbe assumere in questo contesto (si pensi banalmente all'obbligo di distanziamento o di lavaggio delle mani) il principio di autoresponsabilità del lavoratore e dell'incidenza dell'istituto del concorso di colpa di cui all'art. 1227 c.c.. Ricordiamo infine, per completare il quadro anche attraverso il prisma processuale, il particolare assetto del riparto degli oneri probatori in tema di responsabilità ex art. 2087 c.c. Costituisce ormai ius receptum il principio secondo il quale, mentre spetta al lavoratore provare la nocività dell'ambiente di lavoro e la ascrivibilità a questa e ad un particolare fattore di rischio del danno alla salute, incombe invece sul datore l'onere di dimostrare di aver adempiuto il proprio obbligo di prevenzione avendo adottato “… non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore … ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio” (Cass. civ., 6 novembre 2019, n. 28516). Ed è proprio in relazione a tali “altre misure”, non determinate, che in un contesto così sfuggente potrebbe risultare particolarmente gravoso il carico probatorio dell'imprenditore. Questi messo a confronto con una tipologia di rischio inusuale, quanto impalpabile e generalizzata, che rischia di convertire il relativo onere processuale in una vera e propria probatio diabolica.
La posizione del lavoratore
Come in una sorta di immaginario gioco di specchi, le principali criticità dianzi riassunte potrebbero ritorcersi anche in danno del lavoratore, evidenziando in particolare il rischio – parallelo – di possibili vuoti di tutela. Occorre a tale riguardo premettere che, assai opportunamente, il Legislatore ha voluto chiarire (art. 42, comma 2, del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020, c.d. decreto “Cura Italia”), in riferimento sia al lavoro privato che pubblico, che l'infezione da Covid-19 di cui sia accertata la riconducibilità ad “occasione di lavoro” deve intendersi equiparata ad un normale infortunio sul lavoro e dunque essere sussumibile nella medesima disciplina. In questa prima prospettiva la copertura assicurativa antinfortunistica e la relativa garanzia indennitaria sembrerebbero assoggettate ad un regime tendenzialmente meno rigoroso rispetto a quello civilistico generale. Un recente documento di INAIL (nota 17 marzo 2020, n. 3675) con particolare riguardo, peraltro, agli operatori sanitari chiarisce come la tutela assicurativa si estenda anche alle ipotesi “… in cui l'identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica”, discendendone che “… ove l'episodio che ha determinato il contagio non sia percepito o non possa essere provato dal lavoratore, si può comunque presumere che lo stesso si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro indizio che in tal senso deponga”. Ma questo apparente favor, potrebbe però essere – appunto – solo tendenziale e correlato all'esposizione del rischio tipico, specifico proprio degli operatori sanitari. Ciò può dunque dirsi anche in relazione alle altre tipologie di addetti, esposti ad un rischio generalizzato e dunque di assai più complessa individuazione, in un'ottica anche solo probabilistica? Il quesito appare tanto più stringente se, dal campo del meccanismo assicurativo, ci spostiamo nell'ambito della colpa civile, il cui attuale statuto – con particolare riguardo alla sua proiezione processuale – abbiamo dianzi tratteggiato nei suoi momenti essenziali. Così come per il datore, potrebbe infatti risultare in concreto quanto mai arduo anche per il lavoratore assolvere alla parte di onere probatorio posta a proprio carico. L'universalità del relativo rischio biologico, potenzialmente disseminato in ogni ambito di interazione sociale, potrebbe rendere assai difficile ricollegare causalmente l'eventuale evento avverso ad una specifica fonte di rischio, così dimostrando la effettiva nocività dell'ambiente lavorativo. Come evidenziato nel documento INAIL testé citato l'identificazione della fonte di contagio potrebbe in sostanza risultare in un numero verosimilmente ampio di casi un'operazione alquanto “problematica” se non addirittura impossibile. Ciò che escluderebbe il lavoratore infortunato (e i propri superstiti) da quella più ampia tutela garantita, in particolare, dallo strumento risarcitorio civile. Vero è che, come ampiamente riconosciuto, un'inadeguata struttura di prevenzione del rischio o la carenza di idonei comportamenti attivi del datore di lavoro potrebbe legittimare il lavoratore ad avvalersi dello strumento di autotutela di cui all'art. 1460 c.c. e dunque rifiutare la propria prestazione lavorativa. E ciò soprattutto in realtà aziendali rispetto alle quali, per dimensioni, capacità economica ed organizzativa, non sia in concreto esigibile un livello di sicurezza di altissimo standard.
Ma è parimenti difficile negare che la straordinaria diffusività e le caratteristiche epidemiologiche di questa affezione renderanno alquanto complesso ogni procedimento di rigorosa ricostruzione causale. Mettendo - anche da questo lato della barricata - a dura prova l'efficienza del noto principio del “più probabile che non”, soprattutto in una prima fase di comprensione e mappatura scientifica del fenomeno e delle relative leggi di copertura.
Conclusioni
Come accennato dianzi le peculiari caratteristiche di questa emergenza epidemiologica, senza precedenti per diffusione e insidiosità, potranno verosimilmente mettere in tensione anche i termini ad oggi noti della responsabilità datoriale, allargando in modo importante e in larga parte inedito la già ampia sfera di operatività degli obblighi di sicurezza e prevenzione incombenti sull'imprenditore. Allo stesso tempo le presumibili difficoltà di ricostruzione causale del supposto evento infortunistico renderanno meno facilmente attingibile e talora forse impossibile per il lavoratore la prova di una effettiva nocività dell'ambiente di lavoro. Sarà dunque imprescindibile, almeno in una fase iniziale e di assestamento, individuare soluzioni di grande equilibrio e oculatezza. Non potendosi, da un lato, esigere dal datore di lavoro la predisposizione di un ambiente “a rischio zero”, né pretendersi, in questo momento storico attraversato da una pandemia di dimensioni universali “l'adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo” (Cass. civ., n. 3282/2020 cit.). Ma non potendosi neppure, per altro verso, indebolire i meccanismi acquisiti di tutela del lavoratore sacrificandoli agli interessi economici e della produzione. L'eventuale danno, dunque, non potrà - come si diceva - essere lasciato in alcun caso là dove è caduto.
Avv. Andrea Ferrario
studio legale avvocato Andrea Ferrariovia Emilio Morosini n. 24 - 20135 Milano
tel 02 5454378 fax 025460549
Socio AGI - Avvocati Giuslavoristi Italiani
www.giuslavoristi.it
lunedì 11 giugno 2018
mercoledì 21 settembre 2016
ROBERTO FASCIANI DIRETTORE DI EUROPE CHINESE NEWS
a destra, la Presidente di MILAN HUAXIA GROUP, Angela Zhou
Roberto Fasciani è il nuovo Direttore di EUROPE CHINESE NEWS.
Roberto Fasciani è il nuovo Direttore di EUROPE CHINESE NEWS.
“EUROPE CHINESE NEWS” secondo il Sole 24 Ore (21. 3.2012), è “la più importante testata in ideogrammi scritta e stampata in Italia”. Fondata nel 2004, distribuita in Italia e in Europa, la pubblicazione ha anche una versione online in cinese sul sito http://www.ozhrb.eu e in inglese sul sito http://www.ihuarenbao.com/en/ . La Presidente della Società editrice è Angela Zhou, imprenditrice ben conosciuta, anche fondatrice e Presidente di MILAN HUAXIA GROUP, società a capo del gruppo HUAXIA, una delle più importanti imprese cinesi in Italia. Il suo gruppo ha interessi in molti settori fra cui: media on e offline, media center, e-commerce globale, organizzazione di eventi, studi di consulenza, import ed export di beni di lusso e di prodotti alimentari, hotel, enoteche, ristoranti cinesi e occidentali, food & beverage, catering e ospitalità, agenzie di viaggi, società di consulenza per investimenti , promotore di mostre, studi legali, società di assicurazione, centri culturali e altri modelli multi-business. MILAN HUAXIA GROUP è una delle aziende di proprietà di imprenditori cinesi più influenti in Italia e una tra le più importanti società cinesi a livello internazionale.
lunedì 3 febbraio 2014
AGL - SERVIZI PER MALATTIE PROFESSIONALI
AGL
Alleanza
Generale del Lavoro
Via Antonio Fogazzaro 1 (scala sin.,3° piano)
20135
MILANO
per
appuntamento: tel. 3349091761
Assistenza
al lavoratore che voglia farsi riconoscere la malattia professionale:
- accertamento che la malattia sia connessa alla attività lavorativa
- indirizzamento a medico legale a condizioni agevolate
- avviamento della domanda per ottenere l'indennizzo o il risarcimento
- azioni per impedire che il datore di lavoro faccia di tutto per nascondere la malattia professionale
- qualora le decisioni dell'INAIL fossero insufficienti o inadeguate, preparazione ricorsi amministrativi e indirizzamento a legali per ricorsi a condizioni agevolate
- monitoraggio dell'evoluzione della malattia professionale e, se necessario, assistenza per chiedere una revisione per aggravamento delle condizioni di salute
- sostenere, tramite avvocati convenzionati, la causa davanti al Tribunale qualora la salute non consenta di continuare a svolgere la mansione
- richiesta al datore di lavoro del risarcimento di quanto non indennizzato dall'INAIL
mercoledì 4 dicembre 2013
7 LAVORATORI CINESI MORTI: I MAGISTRATI: “4 INDAGATI CINESI,PER ORA, MA LE INDAGINI POTREBBERO ALLARGARSI AD ALTRI SOGGETTI...”. SPERIAMO!
(foto da www.ansa.it)
GIOVANNINI (Ministro del Lavoro): "MAI
PIU' SIMILI EPISODI" -"Simili episodi non possono e non
debbono ripetersi". Lo ha detto oggi il ministro del
Lavoro Enrico Giovannini, rifererendo alla Camera
sulla strage di Prato . Purtroppo è un'ulteriore dimostrazione delle
conseguenze di condotte volte a negare tutele legali ai lavoratori".
"Non si può abbassare la guardia nell'opera di prevenzione e
controllo sulla normativa di settore". A Prato, ha aggiunto il
ministro, che è "un importante distretto tessile", risulta
difficile "l'operazione di controllo e prevenzione".
Giovannini ha poi spiegato che c'è una "programmazione a
cadenza settimanale di interventi mirati e coordinati con gruppo
interforze". Resta comunque una "condizione di
insostenibile e illegale sfruttamento".
29 NOVEMBRE 2013: ECCO QUANTO AVEVA
APPENA RESO NOTO IL MINISTERO DEL LAVORO (NON SI CAPISCE BENE
RELATIVAMENTE A QUALE PIANETA) :
“Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali
Ufficio Stampa
Lavoro, irregolari metà delle aziende
ispezionate, in aumento lavoro nero, finte collaborazioni e partite
IVA
Lavoro irregolare sotto la lente degli ispettori. Il
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali comunica i risultati
del l'attività di vigilanza sulla mancata applicazione delle norme
previdenziali e della prevenzione e sicurezza del lavoro.
Nel periodo gennaio-settembre 2013 sono state
ispezionate 101.912 aziende, in lieve aumento (0,1%) rispetto allo
stesso periodo nell'anno precedente; in 56.003 aziende, pari al 55%
di quelle controllate, sono stare riscontrate delle irregolarità. La
costanza del numero delle aziende ispezionate scaturisce da una
specifica strategia del Ministero, mirata a concentrare le verifiche
verso obiettivi significativi in relazione a fenomeni irregolari di
rilevanza sociale: lavoro nero, tutela dei minori, sfruttamento
extracomunitari clandestini, elusione contributiva e sicurezza sul
lavoro.
Le ispezioni hanno consentito di verificare 202.379
posizioni lavorative (in diminuzione del 29,3% rispetto a
gennaio-settembre 2012) con l'individuazione di 91.109 lavoratori
irregolari, di cui 32.548 totalmente in nero (pari al 36% dei
lavoratori irregolari, con un aumento di 5 punti percentuali rispetto
allo scorso anno). In 439 casi è stata riscontrata una violazione
penale per impiego di lavoratori minori, mentre è stato individuato
l'impiego di 816 lavoratori extracomunitari clandestini, circa il
2,5% dei lavoratori in nero, in lieve diminuzione rispetto allo
stesso periodo del 2012.
Il lavoro irregolare è diffuso in tutti i settori
di attività economica, tuttavia la quota del lavoro nero si annida
maggiormente in agricoltura (58% degli irregolari) e nell'edilizia
(43%).
Tutti gli altri fenomeni, quali ad esempio appalti
illeciti, l'uso non corretto del contratto di somministrazione (7.548
numero di lavoratori coinvolti) e le violazioni della disciplina in
materia di orario di lavoro (10.082 lavoratori) subiscono una decisa
riduzione.
Violazioni rispetto alle norme di prevenzione e
sicurezza del lavoro sono state riscontrate in 24.316 aziende, pari
al 25,8% delle aziende ispezionate, con una diminuzione di 5 punti
percentuali rispetto allo stesso periodo del 2012.
Infine, nonostante gli irrigidimenti previsti dalla
legge 92 del 2012, si riscontra un aumento del le "riqualificazioni"
dei rapporti di lavoro, che avvengono nel caso in cui l'ispettore
giudica diversamente un rapporto di lavoro, sia dipendente sia
autonomo, come nel caso delle collaborazioni a progetto non genuine e
delle false partite Iva. Le riqualificazioni nel periodo
gennaio-settembre 2013 sono complessivamente 14.520, corrispondenti a
circa il 26% dei lavoratori irregolari, con un aumento di 6 punti
percentuali rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
Dal punto di vista finanziario, le sanzioni per le
irregolarità riscontrate ammontano complessivamente a 78,1 milioni
di euro, con una diminuzione di circa 13 milioni di euro (-14,2%)
rispetto all'anno precedente.
Si allega la tabella
dei dati
Roma 29 novembre 2013”
Domanda: visto che sono scattate le indagini,
gradiremmo sapere nome e cognome di chi sapeva e non ha adempiuto ai
suoi doveri di ufficio. E di chi, dall'alto, o non ha controllato se
determinate attività ispettive venivano svolte con la dovuta
incisività o si è adoperato, dati i rilevanti interessi economici
italiani alla presenza di queste realtà apparentemente solo cinesi,
affinchè veri controlli non venissero fatti.
E poi: in Italia gira la voce che quando viene
denunciato qualcosa che non va nei luoghi di lavoro è vero che le
ispezioni vengono disposte ma molte volte avvisando, da parte di
funzionari e dirigenti pubblici infedeli, i datori di lavoro
interessati con congruo anticipo in modo che possano salvarsi.
Domandiamo alle Forze dell'Ordine e alla
Magistratura: sono mai state fatte indagini e intercettazioni sulla
reale consistenza di questo fenomeno? E se si trattasse di una
pratica corrente, in quali reali condizioni di sicurezza opererebbero
milioni di lavoratori italiani e stranieri?
Se questi sono i risultati dell'attività di
vigilanza non sarebbe meglio che le relative funzioni venissero tolte
a chi non le sa esercitare da decenni e, nell'ambito di una spending
review, fossero affidate a soggetti più seri, ad esempio alle Forze
dell'Ordine, direttamente? Chiudendo rami della Pubblica
Amministrazione che da anni dimostrano di non servire a nulla
(ovviamente salvaguardando il posto di lavoro solo per coloro che
fino ad oggi vi hanno lavorato seriamente)?
E infine non sappiamo se chi di dovere in Italia
riuscirà a perseguire gli eventuali responsabili nostri connazionali
di questa sciagura ma se ciò avvenisse ci piacerebbe che venissero,
per scontare la pena, affidati , per una volta, alle Autorità
Cinesi......
AGL
AGL
martedì 3 dicembre 2013
COOPERATIVE: IL MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO DECRETA LA FINE DELL'UNCI E DEL FONDO MUTUALISTICO PROMOCOOP
pubblicato sulla gazzetta ufficiale n.275 del 23 nov.2013
IL MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO Visto l'articolo 45, comma 1, della Costituzione; Visto il decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577; Visto il decreto del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale 18 luglio 1975, pubblicato per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 211 dell'8 agosto 1975, con il quale l'Unione nazionale cooperative italiane (U.N.C.I.) e' stata riconosciuta quale associazione nazionale di rappresentanza assistenza e tutela del movimento cooperativo, ai sensi e per gli effetti degli articoli 4 e 5 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato n. 1577 del 1947, e ne e' stato altresi' approvato il relativo statuto; Visti gli articoli 27 e 28 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 recante la riforma dell'organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59, con i quali si attribuiscono al Ministero delle attivita' produttive le funzioni ed i compiti gia' di competenza del Ministero del lavoro e della previdenza sociale in materia di cooperazione; Visto il decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2006, n. 233, ed in particolare l'articolo 1, comma 12, il quale dispone che la denominazione «Ministero dello sviluppo economico» sostituisce, ad ogni effetto e ovunque presente, la denominazione «Ministero delle attivita' produttive» in relazione alle funzioni gia' conferite a tale Dicastero; Visto l'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361, recante norme per la semplificazione dei procedimenti di riconoscimento di persone giuridiche private e di approvazione delle modifiche dell'atto costitutivo e dello statuto; Visto l'articolo 3 del decreto legislativo 2 agosto 2002, n. 220 ed in particolare il comma 7, in forza del quale il Ministro delle attivita' produttive puo' revocare il riconoscimento alle Associazioni nazionali che non sono in grado di assolvere efficacemente le proprie funzioni di vigilanza sugli enti cooperativi associati; Visto il decreto del Presidente della Repubblica 28 novembre 2008, n. 197, recante il regolamento di organizzazione del Ministero dello sviluppo economico; Vista la relazione del Direttore Generale per le piccole medie imprese e gli enti cooperativi, allegata alla nota prot. n. 121080 in data 17 luglio 2013, con la quale sono state segnalate perduranti problematiche ed inefficienze nell'attivita' di vigilanza dell'U.N.C.I. nei confronti delle cooperative associate, stante il persistere di una conflittualita' interna circa il soggetto titolato all'effettiva rappresentanza dell'associazione, manifestata dalla nomina di rappresentanti legali eletti in adunanze separate, indette di volta in volta da organi oggetto di contestazione, con deliberazioni impugnate in sede giurisdizionale che hanno determinato pronunce difformi e non definitive, rese in sede cautelare; Vista la relazione dei Sindaci dell'U.N.C.I. i quali nel mese di dicembre 2010 avevano segnalato un perdurante stato di immobilita' dell'attivita' amministrativa dell'Associazione di rappresentanza, a seguito del conflitto insorto in seno ai relativi organi statutari, il quale non consentiva un andamento ordinato della gestione amministrativa e associativa, con conseguente mancata approvazione del bilancio consuntivo 2009 e del bilancio preventivo 2010 nonche' delle quote associative per l'anno 2010, atti indispensabili per il corretto svolgimento della vita associativa; Viste le risultanze dell'attivita' di vigilanza svolta dal Ministero nei confronti dell'Associazione nell'anno 2011, che ha confermato irregolarita' gestionali consistenti nella mancata approvazione di bilanci, nelle intervenute modifiche statutarie in contrasto con le indicazioni ministeriali, nelle ricorrenti carenze nella redazione dei verbali di revisione da parte dei revisori incaricati dall'U.N.C.I.; Viste le diffide rivolte all'U.N.C.I. a disporre specifici correttivi nell'organizzazione dell'attivita' revisionale, da attuarsi mediante programmazione e realizzazione di attivita' formativa e di aggiornamento dei revisori, in esito alle quali sono pervenute risposte contrastanti dai diversi soggetti che rivendicavano, contemporaneamente ed in conflitto tra di loro, la titolarita' della qualita' di legale rappresentante dell'Associazione; Preso atto della corrispondenza intercorsa con la Prefettura di Roma - Ufficio territoriale del Governo, la quale attesta il perpetuarsi della situazione di forte conflitto, dovuto alle contrapposte richieste di iscrizione, quale rappresentante legale, nel registro prefettizio delle persone giuridiche, da parte di soggetti diversi, legittimati a seguito di successive pronunce, non definitive e non univoche, rese dal Tribunale Civile di Roma. In particolare, nel solo ultimo anno risulta che sulla base di successive assemblee congressuali e di distinti provvedimenti giudiziali la Prefettura di Roma ha proceduto ad iscrivere quale presidente legale rappresentante prima il Cav. Pasquale Amico, poi il Sig. Cosimo Mignogna, successivamente il Cav. Pasquale Amico e, da ultimo, in data 29 settembre 2013, il Sig. Cosimo Mignogna; Vista la nota del Sindacato FE.S.I.C.A., pervenuta in data 13 settembre 2012, con la quale si segnala al Ministero l'assenza di certezze circa l'effettiva titolarita' della rappresentanza legale dell'U.N.C.I., ribadita con successiva nota dello stesso Sindacato del 15 marzo 2013, con la quale si rinnova la richiesta di chiarimenti sul soggetto titolato a rappresentare l'Associazione in giudizio, nel procedimento di opposizione al licenziamento di dipendenti in servizio presso la sede nazionale di U.N.C.I.; Tenuto conto delle segnalazioni e richieste di chiarimenti rivolte al Ministero, provenienti da enti di natura pubblica e privata presso i quali l'U.N.C.I. ha designato propri rappresentanti, circa l'effettivita' della carica di rappresentante legale dell'Associazione medesima, stanti le contrastanti affermazioni provenienti da soggetti che assumono di essere titolati; Preso atto delle numerose pronunce rese dal Tribunale di Roma, dalle quali emerge un insanabile conflitto e la non univoca individuazione del rappresentante legale dell'U.N.C.I. ed in particolare: - ordinanza 27 aprile 2012, la quale rinvia alla inevitabile convocazione dell'assemblea degli associati l'adozione delle decisioni necessarie per risolvere le problematiche verificatesi e ripristinare un regolare sistema amministrativo; - ordinanza collegiale 19 giugno 2012 la quale riconosce la validita' della costituzione in giudizio dell'UNCI nella persona del rappresentante legale p.t. Pasquale Amico; - ordinanza 27 luglio 2012, giudice dott.ssa Buonocore, con la quale e' stato ingiunto al prof. Paolo Galligioni di "immettere Amico Pasquale, quale neo nominato presidente dell'U.N.C.I. nella disponibilita' della documentazione e dei beni di pertinenza della predetta associazione e di consentire allo stesso il libero accesso alla sede dell'Ente, per l'espletamento delle funzioni di pertinenza; astenersi dal compimento di atti ed attivita' riservate, per legge o per statuto, al Presidente dell'U.N.C.I. o ad altro diverso organo dell'Associazione; astenersi dalla spendita della qualita' di presidente dell'U.N.C.I. nei rapporti con gli associati ed i terzi"; - ordinanza 16 novembre 2012, giudice dott. Scerrato, con la quale e' stata rigettata l'istanza di sospensione della delibera congressuale del 24 marzo 2012 che ha eletto il Cav. Amico a Presidente dell'U.N.C.I., confermata con successiva ordinanza collegiale del 6 febbraio 2013; - ordinanza del 10 gennaio 2013, giudice dott.ssa Dell'Orfano, che ha dichiarato la piena regolarita' di tutti gli atti prodromici al congresso del 24 marzo 2012, riguardante l'elezione del Cav. Pasquale Amico quale presidente e legale rappresentante dell'U.N.C.I.; - sentenza n. 16217 dell'11 giugno 2013, depositata in data 22 luglio 2013, con la quale il Tribunale di Roma - III Sezione Civile, ha accertato che lo statuto dell'U.N.C.I. da applicare e' quello del 2000, dichiarando altresi' nulla la deliberazione del Consiglio Generale U.N.C.I. del 23 giugno 2010 con cui venne fissata la convocazione del Congresso nazionale straordinario dell'Associazione ed approvato il relativo regolamento congressuale. Sulla base di detto provvedimento giudiziale e del congresso straordinario del 15 luglio 2013, la Prefettura di Roma ha provveduto ad iscrivere nel registro delle persone giuridiche il signor Mignogna Cosimo quale presidente e legale rappresentante dell'U.N.C.I.; - ordinanza del Tribunale Civile di Roma, Sezione III, giudice dott.ssa Libri, del 29 luglio 2013 con la quale e' stata in via preliminare rilevata l'infondatezza della eccezione di difetto di legittimazione passiva dell'U.N.C.I., rappresentata dal Cav. Amico, sul presupposto della spettanza a costui della carica di presidente dell'U.N.C.I., a seguito dell'elezione del 24 marzo 2012; Vista la comunicazione dell'avvio del procedimento di revoca di cui alla nota prot. n. 145274 in data 6 settembre 2013; Valutate le argomentazioni formulate mediante deposito di documentazione prodotta nel corso della accordata audizione delle parti controinteressate svoltasi in data 18 settembre 2013; Vista la successiva nota prot. n. 161545 in data 3 ottobre 2013 con la quale l'Amministrazione ha comunicato la sospensione per trenta giorni, ai sensi dell'articolo 2, comma 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241 del termine finale del procedimento di revoca; Preso atto altresi' che, successivamente alla comunicazione del 3 ottobre 2013, inerente la sospensione del termine finale del procedimento di revoca, in data 18 ottobre 2013 veniva richiesto all'U.N.C.I. un aggiornamento di notizie circa l'attivita' di vigilanza svolta; Preso atto che nel corso del procedimento di verifica dei presupposti per la revoca, il Cav. Amico ha ribadito l'avvenuta assegnazione di 3.403 incarichi di revisione cooperativa nell'anno 2013, con la conclusione di solo 296 di essi, ed il Sig. Mignogna ha dichiarato di aver autonomamente disposto l'effettuazione di circa 1.500 revisioni cooperative dietro segnalazione degli uffici regionali dell'Associazione, restando dunque acclarata l'incertezza sulla individuazione della carica di presidente e di soggetto legittimato all'attribuzione degli incarichi di revisione; Ritenuto che la predetta incertezza sulla individuazione della carica di presidente e di soggetto legittimato all'attribuzione degli incarichi di revisione incide sul corretto svolgimento dell'attivita' revisionale con possibili ripercussioni sugli esiti della stessa; Valutate le dichiarazioni e le osservazioni che le due parti hanno reso negli incontri tenuti presso la Direzione generale per le piccole e medie imprese e gli enti cooperativi, attraverso le quali e' stata ribadita da un lato l'impossibilita' di una soluzione stragiudiziale del perdurante conflitto, dall'altra la riproposizione dello sdoppiamento delle strutture sociali ed amministrative, fatti questi che rappresentano un evidente ostacolo alla corretta e serena gestione del rapporto associativo e revisionale con le cooperative aderenti; Considerato che tale perdurante incertezza nella titolarita' della "governance" associativa ostacola l'efficace svolgimento della attivita' revisionale nei confronti degli enti cooperativi associati e le relazioni con i soggetti istituzionali che hanno rapporti con l'U.N.C.I.; Preso atto che a causa della conflittualita' interna sono state fissate due distinte sedi sociali, ubicate in luoghi diversi, con conseguente indeterminatezza ai fini delle comunicazioni, notifiche e rapporti istituzionali; Considerato che la revoca del riconoscimento costituisce l'unico provvedimento previsto dalla legge come adottabile da parte della Amministrazione, in presenza di presupposti incidenti sullo svolgimento corretto ed efficiente della attivita' revisionale nei confronti delle societa' cooperative aderenti; Ritenuto che sussistono i presupposti di fatto e di diritto per l'adozione, ai sensi dell'articolo 3, comma 7, del decreto legislativo 2 agosto 2002 n. 220, del provvedimento di revoca del riconoscimento dell'associazione U.N.C.I., atteso che la medesima Associazione non risulta essere piu' in grado di assolvere efficacemente alle funzioni di vigilanza sugli enti cooperativi associati, ad essa demandate; Considerato che il suddetto riconoscimento e' intervenuto con decreto ministeriale 18 luglio 1975, adottato ai sensi e per gli effetti degli articoli 4 e 5 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, rilevando dunque sia ai fini della legittimazione allo svolgimento dell'attivita' di vigilanza sia ai fini dell'acquisto della personalita' giuridica; Considerate le sopravvenute modifiche normative (articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361, recante norme per la semplificazione dei procedimenti di riconoscimento di persone giuridiche private e di approvazione delle modifiche dell'atto costitutivo e dello statuto e articolo 3 del decreto legislativo 2 agosto 2002, n. 220) le quali circoscrivono il riconoscimento da parte di questo Ministero alla sola legittimazione allo svolgimento dell'attivita' di vigilanza; Considerato che il presente provvedimento di revoca incide su di un riconoscimento, avvenuto in epoca antecedente alle suddette modifiche normative, che ha rivestito la duplice inscindibile valenza di legittimazione allo svolgimento dell'attivita' di vigilanza e di acquisto della personalita' giuridica, e dunque deve valere per ogni effetto conseguente allo stesso riconoscimento; Visto l'articolo 11, comma 1, della legge 31 gennaio 1992, n. 59, il quale prevede che le associazioni nazionali di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo, riconosciute ai sensi dell'articolo 5 del citato decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni, e quelle riconosciute in base a leggi emanate da regioni a statuto speciale possono costituire fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione, i quali possono essere gestiti senza scopo di lucro da societa' per azioni o da associazioni e sono alimentati ed incrementati ai sensi dei commi 4 e 5 del medesimo articolo 11; Considerato che l'U.N.C.I. ha costituito un fondo mutualistico gestito da Fondo per la promozione e lo sviluppo della cooperazione - Promocoop S.p.A.; Ritenuto di dover disporre circa gli aspetti conseguenziali alla revoca del riconoscimento dell'U.N.C.I.; Decreta Art. 1 1. Ai sensi dell'articolo 3, comma 7, del decreto legislativo 2 agosto 2002, n. 220, e' revocato ad ogni effetto il riconoscimento dell'Unione nazionale cooperative italiane (U.N.C.I.), quale associazione nazionale di rappresentanza e tutela del movimento cooperativo, di cui al decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 18 luglio 1975, adottato ai sensi degli articoli 4 e 5 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577. Art. 2 1. A far data dalla pubblicazione del presente decreto, l'U.N.C.I. non e' piu' legittimato a ricevere alcun versamento di cui all'articolo 8 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato n. 1577 del 1947, a titolo di contributo per l'attivita' revisionale da parte delle cooperative e degli enti mutualistici, quali individuati ai sensi dell'articolo 1 del decreto legislativo n. 220 del 2002. 2. A far data dalla suddetta pubblicazione, all'associazione U.N.C.I. e' fatto divieto di accettare versamenti relativi alle fattispecie di cui al comma 1, pena le responsabilita' configurabili alla stregua della normativa vigente. 3. Con successivo provvedimento saranno stabiliti criteri e modalita' per la definizione dei rapporti pendenti e per la individuazione delle risorse residue, acquisite per le attivita' revisionali, da versare al Bilancio entrata dello Stato, Capo XVIII, Capitolo 3592. Art. 3 1. A far data dalla pubblicazione del presente decreto, cessa la legittimazione della societa' Fondo per la promozione e lo sviluppo della cooperazione - Promocoop S.p.A., che gestisce il fondo mutualistico costituito dall'U.N.C.I. ai sensi dell'articolo 11 della legge 31 gennaio 1992, n. 59, ad accettare versamenti e devoluzioni di cui al medesimo articolo 11, commi 4 e 5, rivenienti dalle societa' cooperative e dagli enti mutualistici quali individuati ai sensi dell'articolo 1 del decreto legislativo n. 220 del 2002. 2. A far data dalla suddetta pubblicazione, alla societa' Fondo per la promozione e lo sviluppo della cooperazione - Promocoop S.p.A. e' fatto divieto di accettare versamenti e devoluzioni relativi alle fattispecie di cui al comma 1, pena le responsabilita' configurabili alla stregua della normativa vigente. 3. Con successivo provvedimento saranno stabiliti criteri e modalita' per la definizione dei rapporti pendenti e per la individuazione delle risorse residue, acquisite per le finalita' di cui al citato articolo 11, da versare al Bilancio entrata dello Stato, Capo XVIII, Capitolo 3592. Il presente decreto sara' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Avverso il presente provvedimento e' ammesso, entro 60 giorni, ricorso giurisdizionale dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ovvero, entro 120 giorni, ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 1199 del 1971. Roma, 22 novembre 2013 Il Ministro: Zanonato
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